P/E: rendimenti medi a due cifre nel 2017 ma in calo rispetto al 2016.

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Di Roberto Tronci*

Secondo una ricerca di KPMG e AIFI è pari al 12,5% il rendimento medio annuo dei fondi di Private Equity in Italia.Si tratta di un dato ricavato attraverso il monitoraggio di 91 disinvestimenti ma inferiore di 2 punti percentuali a quanto rilevato nel 2016, comunque un dato a due cifre. l’Irr del 2017 è in linea con il trend degli ultimi 5 anni ed è  importante segnalare ache si sono fatte meno “grandi operazioni” mentre sono aumentate quelle che rientrano nel mid market con rendimenti compresi tra il 10 e il 20%”.Nel caso dei mid market vi sono state operazioni importanti nel settore alimentare (ristorazione) e nella produzione di semilavorati.

La performance del 2017 è stata determinata, da un lato, dai rendimenti complessivamente positivi, dall’altro, dal minor impatto dei write off, sia totali (cioè svalutazione del 100% del valore dell’investimento), sia parziali (pari ad almeno l’80%). Nel 2017, l’incidenza dei write off risulta inferiore, sia per numero (9% nel 2017 contro 17,2% nel 2016), sia in termini di volumi di investimento (cash out), passando dal 1,4% registrato nel 2017 al 3,1% del 2016.

Il cash out complessivo torna ai livelli del 2013, anno significativo in termini di performance generale (pari a 18,2%) per effetto di tre grandi operazioni (un trade sale e due Ipo). Nel 2017, invece, il settore del private equity non è stato interessato da mega deal o Ipo, ma da una serie di buone operazioni di media dimensione. Una per tutte,in Italia, l’acquisto da parte di Intrum di CAF, il servicer attivo negli NPL secured, venduto da Lone Star.

Sono le operazioni di management buy out quelle con il rendimento più alto : circa 32 operazioni con un Irr lordo del 13,4%. Le operazioni di replacement registrano una flessione rispetto a quelle registrate l’anno precedente, sia in termini numerici che di performance.

Nel 2017 si sono verificati i massimi livelli di «cash out» mai censiti dalla ricerca. Si stima che nel decennio 2008-2017 gli operatori di private equity abbiano investito circa 21 miliardi in Italia.

 

*CIO Albacore Wealth Management

 

Aumenta la ricchezza delle famiglie, l’Italia al nono posto al mondo per numero di HNWI.

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La ricchezza totale nel mondo secondo il Credit Suisse ha raggiunto i 280 trilioni di dollari ed è maggiore del 27% rispetto a di 10 anni fa.

Negli ultimi 12 mesi, la ricchezza totale a livello globale è cresciuta del 6,4%. È il ritmo più veloce di creazione di ricchezza a partire dal 2012 e uno dei migliori risultati dal momento dello scoppio della crisi finanziaria. La ricchezza media globale per adulto ha raggiunto nuovo massimo storico:56,540 dollari.

Il paese leader nella crescita della ricchezza sono gli Stati Uniti che hanno aggiunto 8,5 trilioni di dollari allo stock di ricchezza globale. In altre parole, gli Stati Uniti hanno generato oltre la metà della ricchezza totale pari a 16,7 miliardi di dollari negli ultimi 12 mesi. Anche perché, finora, anche grazie alla Presidenza Trump l’economia statunitense è cresciuta e l’occupazione è cresciuta anche se la FED ha sicuramente ha avuto il suo ruolo. Certo se guardiamo al futuro, tuttavia, valutazioni e prezzi immobiliari elevati potrebbero frenare il ritmo di crescita negli anni futuri. In Europa la ricchezza è aumentata del 6,4 per cento grazie anche alla stabilità diffusa in tutto il continente:Germania, Francia, Italia e Spagna sono diventati i primi dieci paesi con i maggiori guadagni in termini assoluti. Schermata 2017-11-17 alle 12.31.59

Ma  il più grande guadagno di ricchezza delle famiglie a livello mondiale è stato registrato in Polonia il + 18% polacco è stato determinato principalmente dal boom della Borsa.   La Svizzera continua a guidare la classifica in termini di ricchezza media e mediana per adulto nel 2017, quest’ultima favorendo paesi con livelli più elevati di uguaglianza di ricchezza. Dall’inizio del secolo, la ricchezza per adulto in Svizzera è aumentata del 130 percento fino a 537.600 USD.

La maggior parte della ricchezza è ancora detenuta da economie ad alto reddito in Nord America, Europa e Asia Pacifico (esclusi Cina e India) ma nuovi creatori di ricchezza stanno diventando più visibili. La Cina, dopo aver subito perdite del 20% durante la crisi, ha superato rapidamente il suo livello di crescita  prima della crisi. Quest’anno il suo ritmo di creazione di ricchezza  è in linea con quello dell’Europa e il suo contributo allo stock di ricchezza globale è stato di 1.700 miliardi di dollari:  il secondo più alto guadagno dopo gli Stati Uniti.

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Nei 12 mesi precedenti alla metà del 2017, gli aumenti significativi della ricchezza sono stati evidenti in tutto il mondo. Gli aumenti sono guidati non solo dai rally azionari ma anche da sostanziali aumenti della ricchezza non finanziaria.  Tutto ciò porterebbe a pensare  che stiamo tornando al modello di crescita pre-crisi.

Pochi gli effetti fiscali sulle aziende italiane dallo stop alla riforma delle imprese svizzere

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1 marzo 2017. Oggi MF ha pubblicato un articolo a firma di Francesco Fabiani e Francesco Baccaglini sul referendum che qualche giorno fasi è tenuto in Svizzera sulla Riforma delle Imprese III. Ecco il testo dell’articolo.

Il 12 febbraio si è tenuto in Svizzera il referendum sulla Riforma delle Imprese III, la quale era incentrata su tre pilastri portanti: (1) l’abolizione dei regimi fiscali privilegiati concessi a determinate società (ausiliarie, di amministrazione e holding), (2) l’introduzione di nuovi regimi fiscali cantonali volti a incentivare l’attività di R&D (Patent box e super ammortamento di impianto BEPS) e (3) la riduzione delle aliquote cantonali sulla tassazione degli utili.

Il referendum è stato respinto dalla maggioranza della popolazione e dei cantoni con risultati molto diversi fra i cantoni. A livello federale ha votato contro il 59.1% ma il panorama a livello cantonale è stato invece molto variegato con quattro cantoni che hanno votato a favore fra cui il Ticino (oltre Zugo, Vaud e Nidvaldo), dove la percentuale dei favorevoli si è attestata al 51.2%.

Il risultato del referendum riflette la difficoltà di coniugare i tre principali obiettivi della Riforma, i quali sono in apparente antitesi fra loro:

  • abolire i regimi fiscali privilegiati invisi alla UE e all’OCSE;
  • restare fiscalmente attrattivi;
  • mantenere un gettito di imposta in linea con quello attuale.

Paradossalmente ciò che ha portato alla bocciatura della riforma non è stata l’abolizione dei regimi speciali, visti come i principali strumenti di attrattività fiscale per le imprese estere, ma la riduzione dell’imposizione delle società a livello cantonale con la conseguente diminuzione del gettito e quindi, potenzialmente, del welfare.

L’ impatto dello slittamento della riforma sui rapporti Svizzera –Italia

 

Se si guarda ai rapporti fiscali fra Svizzera e Italia ci accorgiamo che uno slittamento della Riforma non ha un impatto significativo, grazie al mutato contesto normativo italiano ed alla normalizzazione dei rapporti tra i due Stati (in seguito all’abolizione del segreto bancario e all’adesione da parte della Svizzera al sistema di scambio automatico di informazioni). Infatti il maggior timore per le imprese svizzere è quello di finire nelle black list.

Le black list Italiane

Il panorama delle black list italiane è piuttosto frastagliato. La normativa CFC (Controlled Foreign Companies) contenuta nell’articolo 167 TUIR, cioè la tassazione per trasparenza degli utili delle società estere controllate in capo ai soci italiani (persone fisiche o giuridiche) a seguito delle modifiche introdotte con il Decreto internazionalizzazione (D.Lgs. n. 147 del 14 settembre 2015) e dalla Legge di stabilità 2016 (Legge n. 208 del 28 dicembre 2015, art. 1, c. 142) a partire dal 2016 non fa più riferimento alla black list di cui al D.M. 21 novembre 2001. Inoltre la c.d. “piccola CFC”, cioè la tassazione per trasparenza degli utili delle società collegate, è stata abrogata (ex art. 168 TUIR).

Rientrano invece nell’ambito di applicazione della CFC le società con sede al di fuori di UE o SEE che hanno un livello di tassazione nominale inferiore al 50% di quello italiano (art. 167, c. 4 TUIR).

Le società svizzere – sia quelle ordinarie, ma anche quelle che beneficiano di un regime fiscale privilegiato – probabilmente non rientrano in questa categoria. Infatti, la norma si riferisce al livello nominale di tassazione, quindi non tiene conto dell’effetto della deducibilità delle imposte dal reddito, tipico del sistema fiscale svizzero. In altre parole conta la somma delle aliquote di imposta, che al momento sono fissate al 8.5% a livello federale e al 9% a livello cantonale (Ticino) a cui vanno aggiunte le imposte comunali. Questo dato va raffrontato con la tassazione IRES delle società italiane che a partire dal 2017 si attesta al 24%. Di conseguenza, il tax rate nominale svizzero è ampiamente superiore al 12% (24%/2). Anche stimando ad esempio una riduzione dell’aliquota cantonale ticinese al 6% post Riforma (tutte le aliquote proposte dai cantoni andranno riviste alla luce della bocciatura del referendum), il tax rate nominale sarebbe comunque superiore al 12%. In tale contesto, il tax rate effettivo applicabile in Svizzera alle società a tassazione ordinaria (nell’ordine del 19.6% per il Ticino, che verrà probabilmente ridotto al 16% circa) non ha rilevanza ai fini dell’applicazione della disciplina CFC.

Rientrano poi nella CFC anche le società che a prescindere da dove è collocata la sede soddisfino congiuntamente due condizioni: (i) la maggior parte dei proventi sono costituiti da passive income e (ii) il tax rate effettivo è inferiore al 50% di quello italiano. Sono quindi anzitutto escluse dall’ambito di applicazione le società che non producono passive income. Anche in questo caso, l’abbassamento dell’aliquota IRES al 24% porta a escludere dalla CFC tutte le società che producono passive income senza regimi speciali e probabilmente anche un gran numero di società che pur godendo di un regime speciale si attestano comunque sopra al 12%.

La nuova normativa sui dividendi

E’ importante segnalare un importante riflesso legato alla nuova normativa CFC per quanto riguarda le persone fisiche residenti in Italia che hanno partecipazioni in società svizzere. Di regola, i dividendi da partecipazioni qualificate (>20%) sono soggetti ad IRPEF, ma godono dello sgravio del 50.28% (49.72% imponibile da rivedere a seguito della riduzione dell’aliquota IRES dal 27.5% al 24%), mentre i dividendi da partecipazioni non qualificate sono soggetti ad imposta del 26%. Qualora invece i dividendi (a prescindere dalla qualificazione della partecipazione) provengano da società che ricadono nella disciplina CFC, concorrono integralmente alla formazione del reddito imponibile, cioè sono soggetti ad IRPEF progressiva sull’intero ammontare. Va osservato che il richiamo è alla CFC di cui all’articolo 167, c. 4 TUIR, cioè quella basata sull’aliquota nominale, non effettiva (art. 167, c. 8-bis TUIR).

Assistiamo infine al progressivo inserimento della Svizzera nelle white list basate sull’effettivo scambio di informazioni. Già nell’agosto 2016 la Svizzera è stata inserita nella lista dei Paesi white list (D.M. 4 settembre 1996) verso i quali non si applicano le ritenute sugli interessi pagati dai grandi emittenti (D.Lgs. 239/1996).

Pensiamo che un nuovo testo di riforma delle imprese III modificato verrà proposto sulla falsariga di quello appena bocciato. Ma nel frattempo i rapporti fra Italia e Svizzera sono comunque destinati a normalizzarsi a seguito dell’introduzione dello scambio di informazioni sia a livello convenzionale, che automatico (a partire dal 2018 con dati 2017) e del nuovo quadro normativo italiano sopra descritto.

Nuove categorie di imprenditori avanzano

fk50kc-dzsg-fred-mouniguetIl nuovo report di  Scorpio Partnership con BNP Paribas realizzato intervistando i rappresentanti di 2650 famiglie multimilionarie in 21 Paesi per un totale di 40 miliardi di dollari  di asset gestiti  individua un cluster specifico: gli Elite Entrepeneurs che raramente sono investitori di prima generazione ma che provengono, per la maggior parte, da famiglie imprenditoriali. Si tratta di creatori di ricchezza con il virus dell’imprenditoria  che tendono a concentrarsi su poche imprese per dare il massimo e che pensano che oltre a creare valore la loro mission sia quella di trasferire il senso dell’imprenditorialità alle generazioni successive. Nella figura qui sotto trovate la loro asset allocation. Da notare un 8% di Social Responsible Investment e un 7% di Angel Investment.

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Gli Elite Entrepeneurs  detengono in media quasi 14,9 milioni di dollari. Al loro interno  ne vengono individuati 5 tipi:

Ultrapeneur. Ha patrimonio in eccesso da investire per oltre 25 milioni. La CSR per lui  è un aspetto molto importante degli investimenti

Il Serialpreneur. Un imprenditore seriale che ha fondato più di 5 aziende e continua a impegnarsi in questo senso.

The Woman Entrepreneur.  Imprenditrici che hanno superato le barriere che ne ostacolavano il successo e che riconoscono che l’unione fra le donne fa la forza per il successo delle aziende.

Il Boomerpreneur. Baby Boomers (dai 55 in su) che vogliono impiegare il loro capitale in nuovi business ma non le loro profesionalità.

Il Millennipreneur che mostra una forte motivazione a diventare imprenditore seriale più del serialpreneur dato che sono Millennials-imprenditori attivi da più di 10 anni e considerano l’Healthcare e l’industria del wellness e il Tech come i driver dell’industria del futuro.

Tutti questi segmenti degli Elite Entrepeneurs hanno piena coscienza della loro fortuna sia professionale che personale ed hanno una forte vocazione ad aiutare le generazioni successive a crescere dal punto di vista imprenditoriale. In conclusione gli Elite Entrepeneurs non sono tanti a livello mondiale ma sono quelli che con la loro passione e con il loro approccio multitasking (alcuni di loro gestiscono o contribuiscono alla gestione di più aziende) sono veramente in grado di far crescere il tasso di imprenditorialità nelle generazioni successive.

Se il No al referendum porta incertezza nei mercati

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Oggi sul Corriere della Sera Federico Fubini, il vicedirettore intervista Martin Wolf capo dei commentatori del Financial Times . Wolf sostiene che un No al referendum potrebbe portare ad una sfiducia degli investitori nei confronti dell’Italia e,  del resto,  sostiene Wolf Renzi è uno dei pochi leader europei con una agenda di riforme che sta portando avanti  e  se perde  è naturale che i mercati pensino che abbia perso la sua sfida, che non sia in grado di fare le riforme e che il Paese si avvii in una fase di incertezza .

Questa l’opinione del direttore associato del Financial Times ma proprio oggi il Wall Street Journal allarga lo spettro facendo un collegamento (non è la prima volta in realtà) fra il voto al referendum e la situazione delle banche in Italia e in particolare quella del Monte dei Paschi.James Mackintosh individua il Monte come la perfetta intersezione fra economia e politica e se viene meno la parte politica (in questo caso il No al referendum) trovare i 5 miliardi che servono al Monte per la ricapitalizzazione di cui si sta occupando JP Morgan diventa difficile. Se Renzi vince, secondo Mackintosh, Il Monte viene ricapitalizzato grazie anche alla fiducia dei mercati e questo sarà uno dei casi in cui politica e banche possono andare d’accordo.

Italia – Svizzera: la normalizzazione

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I rapporti fra governi di Italia e Svizzera sopratutto nell’ambito della armonizzazione fiscale sono  mutati  molto rapidamente nel corso degli ultimi due anni e vanno  sempre di più verso una definitiva normalizzazione.

Tutto è iniziato il 23 febbraio 2015, quando sotto l’incombenza del programma di voluntary disclosure, l’Italia e la Svizzera si erano affrettate a firmare un protocollo di modifica alla convenzione contro le doppie imposizioni, per altro una delle più vecchie siglate dall’Italia (1976). La modifica ha riguardato esclusivamente lo scambio di informazioni in materia fiscale fra i due Paesi, per portarlo in linea con i più recenti standard OCSE. In particolare il nuovo accordo ha portato al superamento del segreto bancario, sebbene limitatamente alle informazioni fiscali e a partire dal 23 febbraio 2015. Il segreto bancario rimane intatto per le fattispecie che esulano dall’ambito fiscale.

Inoltre, a latere del Protocollo le delegazioni dei due Paesi avevano siglato anche una road map in cui erano inserite le linee guida per le c.d. domande raggruppate, cioè richieste di informazioni che riguardano una pluralità di contribuenti non individuati singolarmente, bensì sulla base di comportamenti determinati. Il valore legale della road map è dubbio. Certamente la recente sentenza del Tribunale Federale ha aperto la strada allo scambio di informazioni basato su domande raggruppate. Nel caso di specie si trattava della richiesta da parte delle autorità fiscali olandesi di ottenere i nominativi dei propri contribuenti con conti in UBS che non avessero fornito alla banca la prova della loro conformità fiscale. Cio’ non significa che il fisco degli altri Stati possa fare richieste di assistenza troppo generiche, c.d. fishing expedition, vietate dagli standard OCSE.

Il Protocollo di modifica è entrato in vigore il 13 luglio 2016 a seguito della sua ratifica da parte prima della Svizzera (Decreto federale del 18 marzo 2016), senza per altro che venisse proposto referendum contro l’approvazione nei termini (7 luglio), e poi dell’Italia (Legge n. 69 del 4 maggio 2016).

Il primo risultato tangibile è stato il venir meno della necessità del waiver per i conti e depositi svizzeri regolarizzati dai contribuenti italiani nell’ambito della procedura di voluntary disclosure. L’Agenzia delle Entrate potrà infatti utilizzare la procedura di cooperazione amministrativa prevista dal nuovo strumento convenzionale (articolo 27) per ottenere informazioni come per gli altri Paesi white list ai fini della VD. Anche se sul punto si aspetta ancora una presa di posizione formale da parte dell’amministrazione.

Il secondo diretto risultato è stata l’eliminazione della Svizzera dalla black list del D.M. 4 settembre 1996 relativa all’applicazione delle ritenute sui pagamenti di interessi su obbligazioni e i titoli dei grandi emittenti (basata sullo scambio di informazioni). Ciò dovrebbe incentivare gli investimenti finanziari svizzeri in Italia. Infatti, gli investitori non subendo più la ritenuta alla fonte, ad esempio sugli interessi pagati dai titoli di Stato italiani, non dovranno più chiederne il rimborso con ovvie semplificazioni.

A seguito dell’entrata in vigore del Protocollo, la Svizzera verrà progressivamente espunta da tutte le black list basate sul mancato scambio di informazioni.

Al contempo, la Svizzera è destinata a essere esclusa anche dalle black list basate sui regimi fiscali privilegiati, in particolare nella nuova CFC (art. 167, c. 4 TUIR).

Infatti, con l’entrata in vigore nel 2019 della riforma delle imprese III, verranno abrogati i regimi fiscali privilegiati basati sugli statuti speciali, segnatamente le società ausiliarie, di amministrazione e holding, ma anche quelli analoghi. Nei fatti, questi regimi sono già in fase di abbandono da parte di varie società perché saranno oggetto di scambio di informazione (spontaneo obbligatario) a partire dal 2018.

I regimi speciali sono invisi alla UE che li ha tacciati di essere non conformi agli Accordi bilaterali sin dal 2007. In questo modo, anche il contenzioso in corso con la UE verrà a cessare.

Per compensare tale scelta, la riforma attualmente in fase di perfezionamento introduce due vantaggi fiscali per mantenere la Svizzera competitiva e attrattiva sotto il profilo degli investimenti. Da una parte una riduzione generalizzata delle aliquote di tassazione. Una società in Ticino potrebbe subire una tassazione effettiva intorno al 15%-17%. Dall’altra, due regimi speciali – il super ammortamento e il patent box – che sono stati avvallati dal progetto BEPS (Action 5). Si tratta di misure recentemente introdotte anche dall’Italia e da altri Paesi OCSE. Tuttavia, tali regimi unitamente alla riduzione delle aliquote di imposta rendono la Svizzera particolarmente attrattiva rispetto a molti altri Stati.

Alcune questioni ancora aperte

La fretta di concludere l’accordo ha lasciato ancora alcuni punti importanti aperti fra i due Paesi. In primis la questione dei frontalieri e lo status di Campione di Italia, temi molto sentiti al di qua della frontiera. Come l’accesso ai mercati finanziari italiani da parte delle banche svizzere, che però si sovrappone alle competenze della UE e non può quindi essere oggetto di negoziazione esclusivamente bilaterale. Ad ogni modo, questi dossier non sono tali da invertire il trend di normalizzazione dei rapporti fra i due Paesi. Anzi, possono solo accelerarli una volta che saranno risolti.

In conclusione, la Svizzera ha dimostrato nei fatti di essere sempre di più un partner affidabile e cooperativo, rimuovendo definitivamente quella patina di paradiso fiscale o di opacità, che l’ha appannata nel corso degli ultimi decenni. Di conseguenza, la Confederazione si candida a divenire un importante hub finanziario e industriale per gli investimenti da e verso l’Italia.

Cinque modelli per gestire un Family Business

familyUno dei temi delle imprese familiari siano esse grandi o piccole è il sistema di governo dell’azienda nel caso che essa passi di mano dal fondatore/i agli eredi. In Italia, poi,  il Paese dove il capitalismo familiare è  molto diffuso si trovano tanti esempi di imprese fondate e governate da famiglie.  Alcune sono in vendita come Esselunga e tante altre proprio per il sostanziale fallimento dei sistemi di governo familiare sono state vendute.Il governo dell’impresa si riflette, ovviamente, sul governo del patrimonio dell’imprenditore e dei suoi eredi. Nella nostra esperienza vediamo spesso che manca nelle famiglie  imprenditoriali una visione di quali sono le alternative che si hanno per gestire un family business e spesso la non presa di coscienza di tutto questo porta a inefficienze manageriali. Esistono alcuni modelli di gestione del family business e, sebbene vi siano degli ibridi, i modelli dei gestione del Family Business sono  secondo questo articolo della Harvard Business Review cinque:

  • Owned/Operator
  • Partnership
  • Distributed
  • Nested
  • Public

Si può passare da un modello all’altro ma è importante definirli perché la loro adozione impatta spesso anche sulle ricchezze personali (che ricordiamolo comprendono anche ma non solo l’azienda) dei membri della famiglia imprenditoriale.